
La cronaca recente ci insegna come, in concomitanza con l’organizzazione di agoni sportivi di rilievo internazionale, siano sempre nati movimenti di protesta. Un evento quale quello dei mondiali di calcio, sotto l’attenzione dei media mondiali, costituisce un’occasione fin troppo ghiotta per portare all’attenzione delle grandi fette di pubblico il malessere d’un popolo vessato da enormi spese organizzative. E se si tratta poi di un Paese in cui il 35% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il fenomeno è chiaramente amplificato al massimo.
Così è stato e sarà nei prossimi giorni per i Mondiali di Rio, aperti ufficialmente ieri sera (pomeriggio, in Brasile) con una modesta cerimonia, anche un po’ scialba, in una cornice di scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti, in questo caso i dipendenti del metrò di San Paolo che chiedevano un aumento di stipendio. Bilancio della giornata: 11 feriti accertati, 7 arresti e due giornaliste della BBC ferite.
L’atmosfera greve si respirava però già da giorni – mesi, oserei dire – allorché lo Stato brasiliano, trovandosi a dover sostenere enormi spese per la realizzazione degli impianti ed il riammodernamento di quelli già esistenti, ha dovuto – come si suole spesso sentire soprattutto negli ultimi tempi anche qui da noi – “mettere le mani nelle tasche dei cittadini” andando ad aumentare le imposte dirette e il costo dei servizi più primari (e.g. i mezzi pubblici) per una popolazione che, senza esagerare in catastrofismo, è ridotta alla fame.
Chiaramente la cerimonia di apertura di per sé ha rivestito un ruolo marginalissimo, ed è risultata manchevole in molti aspetti. In un contesto di concorso di pubblico piuttosto scarso (come era stata qualche giorno fa l’accoglienza della nazionale locale, in grande pompa ma con partecipazione di poche centinaia di persone), le coreografie si sono incentrate sulla celebrazione delle bellezze paesaggistiche e sulla tradizione culturale brasiliana; un tributo alla natura, nella fattispecie all’Amazzonia per incominciare, e poi alle danze popolari locali. Più dimesso è stato l’ingresso delle rappresentanze delle nazioni ospitanti (mi aspettavo gran fastosità come alle Olimpiadi), e persino l’inno ufficiale (We Are One) cantato da J.Lo, Leitte e Pitbull non ha entusiasmato il pubblico.
Senza indagare, in conclusione, tutti gli aspetti legali e procedurali che hanno portato il Brasile a divenire la sede dei Mondiali 2014, ci viene da chiedere se veramente fosse il caso e cosa sperasse il Governo federale con questa azione. È facile comprendere l’importanza di una sorta di riscatto a livello internazionale di un’economia che si fa sempre più imponente e vuole sollevare il capo al pari delle Potenze Occidentali, ma i disordini e le lacerazioni interne lasciano intendere che tempora matura non fuerunt. Se invece speravano di trarre i benefici di un così grande afflusso di capitali per trarre benefici nell’ammodernamento delle città in cui i giochi si disputeranno, pare oggi all’apertura che il “miracolo” Atene 2004 non si sia avverato.
Ora la parola a voi cari lettori: cosa ne pensate degli avvenimenti accaduti e che probabilmente ci accompagneranno per il resto della manifestazione? Non esitate a commentare nell’apposito spazio sottostante!