La questione è davvero l'articolo 18?

Ammetto che torno a scrivere dopo una sorta di pausa di riflessione. Credo di essere stato leggermente deluso da alcuni temi che la politica non riesce ancora a trattare con convinzione, relegandoli alla campagna elettorale. Ma di questo parlerò in un altro post.

In questi giorni si discute molto della riforma del mercato del lavoro, sì “mercato del lavoro” e non semplicemente “riforma del lavoro”. Questa definizione mette bene in luce i molteplici aspetti che vengono trattati: al centro del mirino non vi è solo il lavoratore o il datore di lavoro, ma l’intero sistema.
I capitoli e temi della riforma ad essere onesti non sono ancora molto chiari, si conoscono le idee di base presenti nel disegno di legge delega, ma per vedere concretamente cosa succederà bisogna aspettare i singoli provvedimenti governativi. A grandi linee però l’idea dovrebbe essere questa: ridurre le 46 forme contrattuali a due, lavoro a tempo determinato e un contratto di lavoro a tempo indeterminato che preveda tutele crescenti.

Ecco il pomo della discordia (principalmente all’interno del PD, escludendo SEL e Movimento5stelle): se fino a qualche tempo fa il contratto a tutele crescenti era la panacea di tutti i mali dell’Italia, quando si è arrivati a stendere in concreto la riforma sono ovviamente sorti ben’altri problemi, prima su tutti la questione articolo 18.

Per chi non lo sapesse l’articolo 18, contenuto nel cosiddetto statuto dei lavoratori, tutela questi ultimi in caso di licenziamento senza giusta causa, affidando al giudice la decisione tra un congruo indennizzo o il reintegro nel luogo di lavoro. Spesso però sono gli stessi lavoratori ad optare per l’indennizzo: chi vorrebbe tornare in un posto nel quale non ci si sente i benvenuti?

Un altro punto importante all’interno del cosiddetto JobsAct è la nascita dell’indennità di disoccupazione universale: a grandi linee saranno interessati tutti i lavoratori, secondo ovviamente determinati parametri, però verrà eliminato l’istituto della cassa integrazione. Alt, cos’è la cassa integrazione? Semplificando al massimo, un’azienda in difficoltà può chiedere aiuto allo Stato; questa dunque non licenzia e lo Stato integra parte dello stipendio. Spesso ciò si traduce in aziende che fanno ricorso alla cassa integrazione per altri scopi…

Dunque ricapitolando: due tipi di contratti ed estensione dell’indennità di disoccupazione a chi oggi ne è escluso.

Quale sarebbe il problema?

I sindacati e la minoranza PD fanno barricate sulla modifica/abolizione dell’articolo 18.

Effettivamente una modifica sostanziale allo statuto dei lavoratori può comportare molti rischi se non vi sono garanzie adeguate. Un occhio attento potrebbe domandarsi se queste garanzie adeguate coprono i giovani co.co.pro. o i lavoratori a tempo determinato.

È evidente che la marea di forme contrattuali oggi vigenti ha creato una giungla normativa nella quale le tutele dei lavoratori sono spesso, legalmente, aggirabili.

È forse un attacco ideologico quello dei sindacati verso la riforma che si sta delineando? Non è forse un vantaggio puntare ad una semplificazione delle regole del gioco, che tanto gioco non è? Riusciranno i giovani a trovare lavoro grazie a tale riforma? E se non ci riusciranno, a cosa sarà servita la rivoluzione normativa? Cosa comporta l’eliminazione eventuale della CIG? Meno aziende che sfrutteranno tali istituti o più lavoratori improvvisamente disoccupati? Quanto peserà sul bilancio dello Stato un’estensione universale dell’indennità di disoccupazione?

Io una risposta ce l’ho, è quella che Anna Paola Concia ha dato intervenendo all’ultima Direzione del Partito Democratico. Potete vederla e ascoltarla qui

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