Rocco a Pois, Sanremo e i titoli di coda

Con l’ossequio ad un rituale lungo e complicato che, puntualmente, si ripete con la stessa meticolosa dovizia di particolari e senza lasciar nulla al caso, il giorno della finale del Festival di Sanremo è ormai uno degli momenti topici del mio vivere, una sorta di appuntamento ineludibile che aspetto ogni anno con la medesima trepidazione. Una cena a casa di amici, da un po’ sempre gli stessi (perché davanti ad una tavola imbandita l’arte del giudizio riesce visibilmente più sottile ed accurata!), preceduta dalla scelta del menù che consta generalmente di poche portate ma tutte decisamente ipercaloriche e, dalle 20 in poi, via libera a: imprecazioni, moti di stupore, sonori vaffa, sgomento, esultanze e chi più ne ha più ne metta. E quest’anno la grande novità d’appartenere al meraviglioso e scoppiettante #PeopleFromTitina che, unito dalla potenza dei social, valica ogni distanza.

Cala il sipario, con la tristezza di una fine alla quale –tutto sommato- forse in tanti non vorrebbero mai arrivare o cui -invece- in altrettanti guardano come salvezza collettiva, scorrono i titoli di coda su quello che, con ogni probabilità, rappresenta una delle occasioni di svago comune intorno alla quale si ritrova un Paese fatto di ben pensanti, spesso di snob radical-chic, ancor più spesso di gente normalissima come me che non aspetta altro per sentirsi investito dell’autorevolezza di un critico, che sia musicale, televisivo o di costume, e per bearsi del dispensare giudizi a destra e manca senza sentire la responsabilità di compiere atti irrimediabili.

Nelle sere precedenti, con la leggerezza che si conviene a tutto l’ambaradan, mi sono divertito a dare le pagelle alle canzoni in gara, suscitando rumorosi moti di stizza in alcuni e generosi compiacimenti in altri ma sempre sforzandomi d’assecondare unicamente il mio estro, la mia sensibilità, ed il mio personalissimo gusto senza peraltro pretendere mai che le mie valutazioni potessero assurgere a giudizi assoluti, ed anche quest’anno non posso che confermare che a me Sanremo piace proprio. E tanto. Mi piacciono i suoi eccessi, le sue debolezze, i suoi slanci, i suoi impeti, le sue gaffes, persino i titoli dei giornali che riesce a suggerire. Mi cimento, in questo giro, in un veloce e spero non del tutto surreale giudizio complessivo sull’intera macchina continuando a dare i voti.

Regia. Maurizio Pagnussat il cui nome, se proprio devo ammetterlo, ignoravo del tutto, mi pare abbia conferito alle cinque serate l’idea di uno spettacolo che, pur prolisso e ridondante, in qualche modo ha funzionato da sé; le inquadrature e le scelte registiche sono risultate perfettamente inserite nel solco della tradizione senza particolari defaillances e senza esasperazioni. Voto 9

Scenografia. Esattamente a metà tra il sensazionalismo ed il rispetto degli stilemi tradizionali, quest’anno il palco dell’Ariston ripensato da Riccardo Bocchini ha saputo attrarre le generali attenzioni, per quanto mi riguarda anche l’apprezzamento: c’è stata la scala, ci sono stati gli ampi e rassicuranti gradini verso la platea, c’è stato uno spazio sufficiente a consentire ed esaltare le esibizioni canore. Due i punti critici: l’orchestra ancora una volta divisa a metà e causa di non irrilevanti distonie acustiche e la totale assenza dei fiori che sono comparsi soltanto nelle forma di striminziti bouquets distribuiti qua e là durante le cinque serate. Cribbio, Sanremo è pur sempre la città dei fiori! Proporrei una class action contro la produzione Rai per questo reiterato comportamento criminale e magari avvierei pure una petizione popolare per riportarli a pieno titolo al centro del Festival. Meno farfalline e borchie e più tulipani! Voto 7

Conduzione. Un Carlo Conti pienamente a suo agio nel solco delle grandi tradizioni del passato, una su tutte quella di Pippo Baudo, ha certamente saputo presentare un Festival alleggerendolo degli inutili orpelli che spesso lo hanno appesantito e conferendogli un’allure frizzante e veloce; promosso il suo guizzo toscano, un po’ meno le sue terribili gaffes ed i suoi imbarazzi (penso al siparietto della famiglia più numerosa d’Italia ed alla breve intervista a Conchita Wurst). Gli concederei volentieri il bis ma lo costringerei ad affidarmi un ruolo di accompagnamento nella direzione artistica. Voto 8. Arisa/Emma Marrone. Di questi due davvero inutili inguacchi proprio non sono riuscito a capire la funzione e la consistenza, stendendo un velo di pietà sull’osceno siparietto in salentino stretto da Al Bano e l’idolo di Maria e sulla pantomima del medico di Arisa, nulla delle due vallette mi ha entusiasmato. Dalla dizione al visibilissimo impaccio sul palco, dalle goffe movenze alle difficoltà di leggere perfino il gobbo; mi fermo decretando una sonora bocciatura senza se e senza ma. Voto 3

Costumi. Nulla da dire sugli impeccabili abiti di Carlo Conti, portati con disinvoltura e senza impedimenti di sorta, mi son parsi decisamente brutti –invece- quelli delle due vallette o, forse, erano semplicemente mal indossati e, quindi, portati malissimo. Dovendo dare un giudizio complessivo direi non oltre la sufficienza. Voto 6

Ospiti. Una sola domanda? Perché tanti comici, alcuni dei quali di pessimo rango? Un tempo si aspettava il Festival per godere dei propri beniamini internazionali che per almeno una decina di minuti ti titillavano da quel palco facendo vibrare le tue corde ed emozionandoti in maniera esemplare, quest’anno abbiamo assistito ad uno stanco avvicendarsi di maschere che con difficoltà estreme si sono arrampicate su un armamentario di battute e gags trito e ritrito, a parte il coinvolgente –seppur brevissimo- momento degli Spandau Ballet per il resto la noia mortale. Voto 4

Vincitori. Con l’esilarante empasse dell’errore della grafica che inverte la posizione di alcuni artisti nella classifica finale suscitando le (prevedibilissime) ire del piuttosto ingessato pubblico dell’Ariston, tutto, o quasi, come da studiato copione in ossequio alla più consolante e media opinione comune, direi senza infamia e senza lode e senza alcun accento ardimentoso. Il Volo, Nek e Malika Ayane sono lo specchio di un’Italia che ha bisogno di conferme e che le cerca anche nella canzone, che sceglie il noto e il conosciuto piuttosto che avventurarsi su percorsi inesplorati. Ha vinto la democrazia cristiana, anche a Sanremo! Voto 6

Il mio personale podio sarebbe stato: 1. Nina Zilli, 2. Di Michele /Coruzzi, 3. Raf ma – si sa- Sanremo è bello anche se e quando (e nel mio caso succede praticamente ogni anno) contraddice le mie aspettative ed i miei gusti.

Bene! Amici tutti di #PeopleFromTitina, non è ancora iniziata la fase di smontaggio che a me questo meraviglioso Barnum già manca: non sarà forse che anche io sono espressione verace di quel sentimento nazional-poplare di aurea mediocritas? Echissenefrega?! Ero e resto sempre Sanremo Addicted!

Raccontatemi il vostro festival, ditemi cosa ne pensate, commentatemi, scrivetemi a rocco@ilpuntoh.com : non aspetto altro che di leggere le vostre impressioni. E soprattutto continuate a seguire tutti noi de Il Punto H, su Sanremo è sceso il sipario ma noi abbiamo sempre tanto da raccontarvi.

Ciauz!

6 thoughts on “Rocco a Pois, Sanremo e i titoli di coda

  1. Tagliente come sempre!! Non sono d’accordo sul giudizio degli ospiti. Credo che la scelta di invitare soprattutto artisti italiani sia stato un plus di questo festival…poi si sa i comici possono piacere o non piacere…

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