Nero

Nero immagineCome la più buia delle notti che non si fida delle stelle. Come il colore di tutto. Come il colore di un niente che annienta. Come il colore delle note che, deliziose espressioni, danno senso ad un bianco che le invoca, quasi implorandole. Nero come lo spirito di quei due che, da mesi, popolavano le mie stanze e che, da giorni, aleggiavano su di me in questo luogo lontano dal rumore del mondo. Nero come la voglia di dominare.

Con la trepidazione di chi aspetta l’appuntamento con la propria anima, con il proprio destino, con il burattinaio di turno capace di dare vita ai sopiti palpiti, ogni giorno aspettavo il mio mentore confidando nella generosità delle sue carezze e pregustando il trasporto del suo abbraccio. Ero lì, in attesa, e tutto per lui. Il mio tempo correva su binari silenti ed afoni, eppure la mia vocazione era quella di elevare la voce al cielo, di cantare per l’altrui diletto, di accudire le aspettative e di cullare i sogni di chi mi cercava per farsi mio compagno. Ero lì, in attesa. Come sempre. Circondato dal silenzio assordante di un luogo muto, di fronte alla vuota cavea che sarebbe diventata il mio specchio… aspettavo. Impaziente. Mi piaceva blandire l’idea che la mia figura potesse ammantarsi di un fascino senza tempo giungendo persino ad incutere timori antichi, reverenze austere, a suggerire inchini. Mi lusingava la consapevolezza di sentirmi ammirato, e temuto. Eppure non ero snob.

Ero diverso.

Sono diverso, per intima elezione e per volontà altrui.

Ero stato concepito perché fossi diverso, perché non mi assimilassi ad una generalità che ripugnavo ma della quale non potevo privarmi. Ero stato immaginato e costruito perché cantassi la mia diversità e perché proprio questa mia diversità fosse veicolo d’emozioni. Mi competeva una parte non secondaria, mi competeva la prima parte ché, in fondo, il burattinaio ed il mentore che aspettavo avrebbe soltanto esaltato ed assecondato. E lo avrebbe fatto alla sua maniera. Era fortemente dialettico il nostro rapporto: io ieratico e severo, muto ma pronto a sussurrare alla prima lieve sollecitazione, lui baldanzoso ed irruento, incontenibile come la piena di un fiume. Travolgente. Era un legame strano, ci amavamo. Io desideravo il suo tocco e la sua presenza accanto a me, volevo sentire il suo profumo e sincronizzare i suoi palpiti; avevo sempre voglia di affidarmi a lui, di sentirmi cercato, di sentirmi invocato. Sentivo il rumore dei suoi passi che si avvicinavano e pregustavo la gioia che ne sarebbe derivata. Mi piaceva rendere il giusto ai suoi stimoli. E capitava pure di rispondere come lui non avrebbe voluto; che diamine, in fondo un’anima ce l’ho anch’io! E quando questo accadeva il nostro dialogo diventava duro, s’irrigidiva. Avvertivo la rabbia nelle sue dita, mi bagnava il sapore della sua delusione, nulla poteva consolarmi. Sentivo la sua durezza.

Ci amavamo. Ci amiamo.

A volte lo percepivo sognante, talora perfino visionario, e mi riempiva di gioia dare sfogo ai suoi impeti; in fondo lui non poteva fare a meno di me. Ed allora il gioco s’invertiva. Avevamo paura entrambi l’uno dell’altro ma lui sapeva perfettamente che io potevo diventare, se soltanto l’avessi voluto, un’insidia incontrollabile; era consapevole, lucidamente consapevole, di non poter sempre controllare le dinamiche di questa insidia. E mi temeva, per questo. Ero il più rassicurante fodero per la sua sciabola ed ero anche dura roccia su cui anche il suo più sapiente colpo sarebbe stato vano. Lui era Davide ed io ero Golìa, io ero Golìa e lui era Davide. Senza soluzione di continuità. Quella sera mi ero tirato a lucido, sapevo sarebbe stato un appuntamento importante, uno di quelli che si aspettano da tanto tempo e che, nel comune sentire (certamente non nel nostro) avrebbe potuto cambiare qualcosa. Ero pronto a dominare la scena cavalcato dal suo impeto che mi pareva perfino eccitato dal sentiero che aveva scelto di percorrere.

Io ero diverso, lo sapevamo bene entrambi, e la mia diversità era stata la sua fortuna. Avrebbe potuto scegliersi un compagno più incolore (paradossale trovarne uno più incolore di me!), avrebbe potuto affidare il suo ansimare a compagni più cedevoli e remissivi; era diverso anche lui, in fondo. Incontentabile ed esigente. E quella sera comparve, tirato a lucido pure lui, quasi dinoccolato, impaziente di sfidarmi; era bello e sicuro di sé ma sapeva che non sarebbe stato facile correre su quel sentiero, non sarebbe stato facile cavalcarmi e percorrerlo indenne. Sino alla fine. E la nostra corsa non sarebbe stata solitaria. Non sarebbe rimasta segreta. La nostra corsa avrebbe dominato quella cavea non più vuota e ne sarebbe diventata folle ed inconsapevole strumento di felicità.

Uno sguardo d’intesa. Un ordine ed una tacita carezza. Scintillante e maestoso un profluvio di ottoni, pochi attimi e le sue mani mi cercarono trovandomi presente. Come sempre. Corremmo insieme. Accolsi le gocce del suo sudore e colsi il colore delle sue lacrime. Lui mi carezzò. Ci amiamo, ancora.

Continuerò ad essere il suo compagno e lui sarà ancora il mio mentore

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