… e ancora il cielo.

Ché, poi, a me di fare il consulente economico-finanziario di questo colosso bancario non mi era mai importato nulla; io avrei voluto studiare l’epigrafia antica ed occuparmi di scavi archeologici, mi sarebbe piaciuto studiare la filologia classica ed approfondire la semantica e la glottologia. Quando, ancora liceale, provavo ad immaginarmi da grande non riuscivo a vedermi diversamente: o sommerso dalle centinaia, forse migliaia di libri di un’enorme e polverosissima biblioteca con gli scaffali altissimi ed arditi che, dal pavimento, s’allungavano per abbracciare il soffitto, oppure immerso in qualche tomba rinvenuta in uno scavo, polveroso anche questo, sperduto in Anatolia o in Armenia. Era così che mi sarebbe piaciuto raccontarmi ai miei figli, ai miei nipoti. Ed invece, soccombente, dovetti cedere alle lusinghe malefiche del dio denaro, dell’economia, di quelle maledette formule matematiche e di quei maledetti numeri che tutto regolano e che, talora, hanno persino l’ardire di sentirsi padroni assoluti del mondo; dovetti cedere alla prepotenza di leggi che non mi appartenevano, che non sentivo mie e che mai mi sarebbero appartenute; dovetti cedere, infine, al fare maliardo e subdolo dei miei che volevano un figlio rampante nella società che conta, un figlio che si sarebbe dovuto iscrivere alla genìa degli uomini brillanti soltanto perché in grado di produrre tabelle e di leggere grafici. Capaci , in definitiva, di capitalizzare.

E gli anni dell’università trascorsero in balìa di questi feroci contrasti: appena un po’ di tempo libero me lo consentiva, correvo a rifugiarmi nei libri delle cose antiche, oppure mi sedevo spesso al vecchio pianoforte della zia che, sebbene malconcio, ancora rispondeva alle maldestre sollecitazioni delle mie dita che, inesperte ma avide, lo accarezzavano desiderose d’avere le risposte che da altre parti non arrivavano. Epperò, devastanti e crudeli come bestie fameliche, sopraggiungevano le incombenze ed i doveri di uno studio che non mi piaceva e che mi costringeva a riprendere in mano altri odiosissimi libri.

Era triste la mia vita. Continuò ad esserlo col passare degli anni. Laureato con lode nel più prestigioso college americano e proiettato, quasi costretto da un agghiacciante contrappasso, verso una carriera che non era la mia, verso successi che avrebbero gratificato l’onore della mia famiglia riempendo d’aria polmoni che non erano i miei. E sognavo ancora glosse e dattili, esametri e chiasmi.

Per evitare la congestione di Manhattan e perché i miei genitori non facessero sentire i loro figli quasi ingoiati dalla voracità della Grande Mela, avevamo sempre abitato a Queens, lo sconfinato quartiere situato nella parte a nord-est della città; un appartamento più che decoroso, ben rifinito e spazioso, al quinto piano di un palazzo. Dove ero cresciuto e dove avevo vissuto non c’erano i grattacieli dalle vertiginose altezze che si trovano nella midtown e nella downtown.

 In quel posto si poteva ancora vedere il cielo. Ed in quel posto avrei ancora potuto continuare a coltivare i miei sogni.

Per la mia ostin11 settembre 4azione a volermi sentire come milioni di altri newyorkesi, quella mattina mi rifiutai di salire sul taxi che mia madre, trepidante all’inverosimile per quel mio primo giorno di lavoro, avrebbe voluto far arrivare sotto casa; e non salii mai su un taxi per andare al lavoro, benché con lo stipendio che guadagnavo avrei potuto permettermi d’andare in ufficio tutti i giorni con una limousine privata. Un paio d’isolati a piedi, ventiquattrore in mano ed iPod che mi trasmetteva uno stanco Gould alle prese con le Goldberg Variations: eccomi salire su un affollatissimo –come sempre- convoglio della metropolitana. Quarantacinque minuti trascorsi ad osservare volti e seguire sguardi sovente in cerca di un’umanità perduta, quarantacinque minuti trascorsi ad interrogarmi su cosa sarebbe stato di me, da quel giorno in poi, quarantacinque minuti pensando a quanto sarebbe stato bello studiare la filologia greca.

Risalii dalle fumanti e sanguigne viscere metropolitane per riemergere nella parte più a sud di Manhattan, in quel financial disctrict croce e delizia dell’economia del mondo intero; ero stato da quelle parti tante volte, conoscevo ogni angolo di quella schizofrenia urbana eppure quella mattina nulla mi sembrava noto; era come se mi fossi ritrovato catapultato in un contesto che vedevo per la prima volta. Avevo difficoltà a riconoscere la luce del sole, troppo alti apparivano i grattacieli che, per quanto vicini, sembrava convergessero nelle sommità.

Era tutto così incredibilmente buio. E lo sarebbe stato, ancora, per l’eternità.

 Abito rigorosamente blu dall’elegante sartorialità inglese, un’austera cravatta regimental abbinata ad un’ancora inamidata camicia celeste, stringate ed inglesi anche le scarpe: ero pronto per l’ordalia di un rito che mi avrebbe tolto il respiro ma che non mi avrebbe mai impedito di sognare. Stavo per entrare nel mondo che non mi sarebbe mai appartenuto, ero sotto e davanti alla Torre numero uno del World Trade Center; insieme alla sua gemella, poco distante, erano gli edifici più alti di New York. Facevano paura, quelle due torri gemelle, suscitando una sensazione d’impotenza e di soggezione difficile da comprendere ed ancora più difficile da spiegare: una di loro sarebbe diventata la mia prigione.

Per sempre.

Varcai la soglia dirigendomi (giacché sapevo perfettamente dove andare perché nel colloquio preparatorio eravamo stati informati su ogni dettaglio) al vano ascensore senza prestare attenzione a ciò che mi circondava: non mi sarebbe mai interessato e mai avrebbe suscitato la mia attenzione. Ero estraneo, in quel luogo.

 Raggiungere il 92mo piano fu poco più che un attimo ed ancor più veloce fu il tempo trascorso per trovare la porta che mi avrebbe introdotto nel mio ufficio: una stanza luminosissima, spaziosa e ben areata, arredata con cura ed in cui nulla era stato lasciato al caso. Ero un top manager, non sarebbe potuto essere altrimenti. Iniziò in questo modo una vicenda che mi avrebbe inchiodato ad una poltrona per 13 lunghissimi mesi, che non si sarebbe mai conclusa –forse- se non avessi scelto di rivedere, per un attimo, i miei sogni.

 Ogni 11 settembre 2mattina sempre il solito percorso con l’iPod che, scegliendo casualmente in una playlist di oltre 30 ore di musica, per quarantacinque minuti diventava signore del mio ascolto. Ogni mattina l’ascensore fino al 92mo piano. Ogni mattina  l’angoscia di dovermi sedere su quella poltrona.

Arrivò un giorno, era l’undici settembre del duemilauno, una mattinata irradiata da una luce ancora molto estiva ed incorniciata in un cielo stranamente limpido e terso; in settembre, a New York, copiose cadono le piogge che introducono, spesso repentinamente, un autunno umido e freddo. Seduto alla mia scrivania, di tanto in tanto portavo lo sguardo oltre i vetri della finestra proprio per godere di quel sole, di quel cielo, di quella luce; ed erano palpiti di bellezza.

Un colpo sordo, all’improvviso. Uno squarcio devastante fece tremare il pavimento. Black out immediato. Urla indistinte. Caos.

Da quella stessa finestra oltre la quale, pochi minuti prima, avevo portato il mio sguardo vidi salire un fitto e nerissimo fumo; non capivo ma avevo la percezione netta che non si trattasse di un incendio comune. Intanto nei corridoi le urla si moltiplicavano, la gente correva verso gli ascensori…occorreva scappare.

Le vie di fuga bloccate dalle fiamme. Eravamo in trappola. Un aereo si era infilato tra il 75mo e l’82mo piano.

L’inferno.

Ma io ebbi ancora voglia di abbracciare i miei sogni. Fu un attimo: aprii la finestra e, con loro stretti intorno a me, diventai tutt’uno con quella luce e con quel cielo violati da un’umanità che aveva dimenticato sé stessa.

Chiusi gli occhi ed accarezzai, ancora, i miei sogni. Per sempre.

Sarei diventato un archeologo.

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