
Omofobia, dal greco, letteralmente è la paura (fobia) dello stesso (homoios), il cui termine “omo” dagli anni ’70 divenne un neologismo per indicare omosessuale, e da qui la paura, l’avversione vera e propria, verso i gay e, più in generale, verso l’intera community LGBT. La breve definizione che ne dà Google è probabilmente quella che, tra tutte, racchiude in sé la risposta migliore: «Timore ossessivo di scoprirsi omosessuale». E allora ecco che, anziché conoscere ciò di cui si ha paura, si diventa aggressivi. Lo scherno del compagno di classe, il bullismo dei ragazzi a scuola, la parolaccia in strada, la parodia in un negozio, gli sguardi sospetti, il gesto velato di toccarsi l’orecchio, ma anche l’insulto gridato a gran voce con sdegno dal branco di turno. Sono tanti i modi cui oggi può manifestarsi, anche virtualmente, su facebook, dietro l’anonimato di una mail e una tastiera o, persino, sulle pareti di un bagno pubblico. Lo sa bene Marco Crudo, 32 anni, pugliese di origine, ma milanese d’adozione, attivista della community LGBT, balzato improvvisamente alle cronache per aver risposto con intelligente ironia su facebook allo scherno di un collega che sui muri di un bagno pubblico gli ha lasciato una “dedica” non proprio simpatica.
Avresti mai immaginato che la tua risposta facesse tanto clamore?
«Mai e poi mai. È stata una scelta impulsiva, non ragionata. Ma, col senno di poi, la rifarei mille volte. In questi giorni ho ricevuto migliaia di pensieri e di messaggi che mi hanno riempito il cuore. Sto facendo davvero tanta fatica a star dietro a tutti e tutte. E qualcuno si è sentito aiutato dal mio gesto. Non potevo chiedere di meglio.»
Tu eri diventato già un fenomeno virale con il video “Scheccare sul serio”, reinterpretando un noto brano di Malika Ayane…
«L’intenzione era di mandare un messaggio serio con l’ironia. Una delle mie più grandi passioni è sempre stata il canto e con quella parodia ho unito l’utile al dilettevole, facendo davvero con pochissimi mezzi e tante idee una cosa carina. Poi ci ho preso gusto e ne ho fatte altre… credo che si debbano cercare i modi più efficaci per mandare messaggi. Le pubblicità progresso strappalacrime te le dimentichi dopo dieci secondi. Le risate invece restano.»
Com’è ormai noto, tu lavori nel trasporto regionale: com’è l’ambiente lavorativo per un gay che non fa mistero di sé?
«Sono stato assunto nel 2004. Ho iniziato con i primi coming out qualche anno dopo. Nel mio lavoro non frequenti sempre le stesse persone, anzi, c’è solo il macchinista con te. I colleghi li incontri perlopiù quando sei in sosta. L’ambiente è molto maschile, maschilista e da “caserma”»
Quando hai capito di essere gay?
«In realtà da sempre. Già alle elementari ero attratto dal compagno di classe. Poi c’è voluto molto tempo per dare un nome a quell’impulso naturale. Ho iniziato a pensarmi davvero come omosessuale intorno ai 19-20 anni.»
Che bambino eri?
«Ho avuto un’infanzia molto serena perché piena di attenzioni. Sono il più piccolo di cinque fratelli, tutti maschi. Una grande famiglia di sette elementi, tutti diversi, può essere un gran casino, soprattutto quando sei appena emigrato al nord da un piccolo paesino della Puglia e vivi in uno scantinato perché non hai una lira. Quando ero bambino ho vissuto la povertà vera, mi ricordo che papà comprava una bottiglia di CocaCola alla domenica, e ce ne versava una quantità esattamente uguale in ognuno dei cinque bicchieri. Quello era il premio domenicale. Non c’era altro, se non tanto amore. Da adolescente sono diventato grassottello, brufoloso, bruttino e poco considerato dai compagni: il pensiero dell’omosessualità era proprio l’ultimo dei miei problemi.»
Come l’hanno presa i tuoi quando hai fatto coming out?
«Più che dichiarazione fu un’ammissione: mio padre me lo chiese esplicitamente ed io risposi di sì. All’inizio mia madre la prese malissimo, con pianti e crisi isteriche, mentre mio padre mi disse che sarei rimasto sempre suo figlio. I miei quattro fratelli ebbero reazioni diverse, ma nessuno di loro fu aggressivo. Certo, erano impreparati e non molto informati sull’argomento e, come tutta la mia famiglia, molto cattolici, quindi qualche scivolone ci fu da parte loro. Negli anni ho dovuto lavorare molto su di me, ho attraversato l’accettazione, poi l’orgoglio, fino ad arrivare a ritenere la mia omosessualità soltanto una delle caratteristiche della mia persona. E questo stesso percorso hanno dovuto affrontarlo anche i miei. Mia mamma con gli anni mi ha sorpreso, diventando sempre più disponibile al dialogo su questo argomento. Mio padre fece poi invece più fatica, parliamo di un uomo nato nel ’34, mi ci scontravo spesso, anche con liti furiose. Ora non c’è più. Era un artista, scriveva libri e poesie, suonava, cantava, si era diplomato in pittura a Brera a 50 anni. Era un uomo libero e poco prima di lasciarci mi disse a tavola pranzando che sarebbe stato ingiusto se non mi avessero permesso di diventare padre. Ricorderò sempre quel momento.»
Cosa significa oggi essere gay?
«Potrei risponderti con un’altra domanda, “Cosa significa essere eterosessuale?”. L’omosessualità non è altro che una caratteristica. L’orientamento sessuale/affettivo non descrive di per sé una persona. Un omosessuale può essere sensibile o stronzo, può amare la moda o il calcio, Lady Gaga o i Metallica. Esattamente come un eterosessuale. Credo che in questo momento storico, in alcune realtà, soprattutto nel nostro paese così cattolico e grondante di ipocrisia e rigurgiti fascisti, possa essere difficile essere gay, tanto quanto essere rumeno o musulmano. La responsabilità di questo credo sia di alcuni politici e mass media che stanno alimentando odio verso un nemico comune, che sia l’extracomunitario che “ruba il posto agli italiani”, il musulmano “terrorista” o il gay che vuole “comprarsi i bambini per capriccio”.»
Quando hai scelto di diventare un attivista LGBT?
«Andai in Arcigay nel 2009, soprattutto per fare amicizia in un luogo dove potessi trovare qualcosa di diverso dall’incontro in discoteca. Presi parte ad un corso per diventare operatore del telefono amico gay di Milano. Un’esperienza fortissima. Conobbi delle persone davvero valide e speciali. Grazie al Cig Arcigay Milano arrivarono i PRIDE in giro per l’Italia, i banchetti informativi nei locali distribuendo preservativi, e i sit-in in Piazza. Quella dell’associazione è un’esperienza di condivisione che consiglierei a chiunque, ad oggi credo sia l’esperienza più formativa e di crescita personale che abbia mai fatto.»
Prima parlavi di Pride, spesso visti come caricaturali parate in costume fatte di eccessi e trasgressione…
«La questione dei Pride spesso viene male “utilizzata” dai mezzi di comunicazione che quasi sempre si soffermano su quel 2% di cubisti in mutande tralasciando completamente le famiglie arcobaleno, i bimbi, e le centinaia di ragazzi e ragazze semplicemente fieri e felici. Ma anche dalle stesse persone LGBT, le quali spesso si dimenticano che il Pride è innanzitutto la commemorazione dei moti di Stonewall del ’69, quando per la prima volta gli avventori di questo bar gay di New York, capeggiati da alcune Drag Queen, si ribellarono all’ennesima retata della polizia. È indescrivibile l’emozione del primo Pride. La gioia che si prova a non sentirsi soli, ma così tanti, felici e colorati. Il Pride ha origini nobili e sentire un gay dire frasi del tipo “è una carnevalata che non serve a niente” mi fa male. Io la chiamo omofobia interiorizzata.»
Perché molti credono che essere omosessuale sia una “scelta”?
«È una convinzione dettata dall’ignoranza e dalla disinformazione. Basterebbe fare un semplicissimo esercizio di immedesimazione: sei un maschio eterosessuale? Bene. Hai scelto tu alle medie di innamorarti della tua compagna di banco che non ti si filava? No. Consideri una perversione essere attratto da Belen? No. Ecco, lo stesso vale per un maschio omosessuale. Con la variante che si sentirà attratto dal marito ballerino di Belen. Non cambia nulla.»
Quando hai subito atti di bullismo perché gay o omofobi, per la prima volta?
«Il bullismo l’ho vissuto seriamente. Alle scuole medie. Un mio compagno di classe mi aveva preso di mira e mi riempiva di schiaffi e insulti quasi ogni giorno. In quel frangente ho avuto modo di constatare l’inefficienza della scuola. Avevo un disagio, arrivavo quasi ogni giorno in ritardo e spesso mi inventavo scuse per non andarci, ma i professori non si accorsero di tutto questo. Anzi, non dimenticherò mai la professoressa di italiano che, all’ennesimo ritardo, mi fece trovare un foglio con l’elenco di tutti i ritardi precedenti da far firmare ai genitori. Scoppiai in lacrime davanti a tutti. Non fu un periodo semplice, e credo che, ancora oggi che ho 32 anni, alcune insicurezze me le porto dentro. L’omofobia posso dire di averla sfiorata solo a lavoro. Con i colleghi, ma anche e soprattutto con qualche viaggiatore che mi è capitato di multare che, come risposta stizzita, ha usato i classici epiteti omofobi.»
Fino al giorno in cui hai trovato un messaggio per te sui muri di un bagno pubblico: che effetto ti ha fatto?
«Non sono stato io a trovarlo, ma un collega amico che mi ha inviato la foto su WhatsApp. La prima reazione l’ha avuta il mio stomaco più che io. Un po’ di mal di pancia. Che ho sfogato scrivendo di getto quella risposta e pubblicando la foto della scritta su facebook. Il mal di pancia è sparito con lo tsunami di amore che ho ricevuto in seguito».
Cosa senti di dire a chi come te ha ricevuto un attacco omofobo o di bullismo vero e proprio, o che è oppresso dalla propria famiglia?
«Innanzitutto che non c’è assolutamente nulla di sbagliato in voi. Ognuno di noi è unico. Poi direi loro di alzare la testa e chiedere aiuto. Un’associazione, la scuola, un adulto fidato, un amico. Chiedete aiuto. Non siete soli. Io ho avuto la prova che c’è un mondo di persone che sanno dare amore e indirizzare anche chi è in difficoltà e da solo sente di non farcela. Chi vi ama continuerà a farlo. Chi non lo farà più non vi amava abbastanza. È dura a volte, ma è l’unica strada per essere felici.»
Consiglieresti quindi a quanti leggeranno questa intervista di fare coming-out?
«Lo consiglio e lo consiglierò sempre a tutti. Presente la Fenice? Ecco, quello è un po’ il coming-out. Rinascere dalle ceneri di una mezza vita. Credo che fare coming out sia un grande dono che si fa agli altri, ai quali regaliamo la nostra vera essenza e non una persona finta. E ha un grandissimo valore sociale e politico.»
A proposito di politica: cosa dovrebbe fare il governo per rendere i diritti davvero uguali per tutti?
«Praticamente tutto da zero, perché nessun governo ha mai fatto nulla per le persone LGBT in Italia. Non abbiamo una serie di leggi contro l’omofobia, non possiamo sposarci, non possiamo avere figli che siano riconosciuti legalmente da entrambi i genitori. Siamo nel Medioevo, non abbiamo nessun diritto. Io non mi voglio più accontentare nella vita. Voglio avere le stesse possibilità di tutte le altre persone.»
Chi è Marco Crudo oggi?
«Una persona come tante altre, sempre in evoluzione, che cerca la sua serenità e l’amore, e sogna di costruirsi una famiglia in un paese che glielo permetta.»
Come immagini il tuo futuro?
«Un bel marito da amare e qualche pargolo da allevare. I miei amici, i miei nipoti, la mia musica. Non chiederei altro.»
C’è una domanda che nessuno ti ha mai fatto alla quale però muori dalla voglia di rispondere?
«“Qual è la tua Spice Girl preferita?” Melanie C. Oh, finalmente! L’ho detto.»
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