
Sotto il grigio diluvio democratico odierno in cui infiniti sono i conduttori tv che, messi a gestire programmi-fiume pomeridiani, si improvvisano giornalisti di cronaca, un bagliore inatteso al telespettatore si manifesta in prima serata su Rai3, con Storie maledette, della sublime Franca Leosini.
Oggi forse siamo poco avvezzi a programmi del genere, essenziali, privi di fronzoli e totalmente affidati al carisma della conduttrice, che certo non scarseggia e regge da sé l’intero programma. Un personaggio curioso quello della Leosini, che smembra appartenere ad un ameno passato televisivo fatto di garbo, eleganza ed accuratezza analitica. L’aspetto già è significativo: donna borghese di mezza età, capelli cotonati, vistosi orecchini e rigore nell’eloquenza, che pure è stemperato da piacevoli ingerenze napoletane che rendono più verace la narrazione (“Era lì chiatta e tosta, signora!” dall’ultima puntata), che è riuscita però a conquistarsi una vasta fetta di pubblico, di qualsiasi età, ed è persino stata premiata come icona gay nel 2013, oltre a infiammare settimanalmente gli animi dei twitter più affezionati, il popolo dei leosiners.
La cifra distintiva della Signora della cronaca è sicuramente la proprietà lessicale con cui racconta le tragiche storie che porta in TV: un linguaggio piano, dal gusto retrò, che sprizza talvolta in barocchismi non artificiosi, ma sicuramente espressivi. Tanto che argutamente c’è chi ha ipotizzato come all’Accademia della Crusca ogni giovedì sera sia party hard con Leosini e Dom Pérignon. Solo la Leosini nel giro di cinque minuti riesce a filosofeggiare sulla fenomenologia del sentimenti (I sentimenti si accomodano là dove trovano uno spazio vuoto), quasi vivendo il dramma degli intervistati, salvo poi cazziarli senza mezzi termini (Celeste [protagonista della scorsa puntata], il cervello non è una polpetta messa al centro della testa, ma un muscolo [sic] che va usato, e lo usi!). Così nei suoi orizzonti, anche gli atti giudiziarii diventano strumenti di fine indagine psicologica (È anche dalle pieghe di un verbale che si capisce l’immensità di un sentimento), ma la Leosini scrive anche nuove pagine della letteratura italiana, lanciandosi in arditi ossimori da fare invidia a Pascoli&co (Pattuglia variegata di gole profonde in un fragoroso brusio aka comari che parlano troppo).
Il programma in sé poi, retto da queste abili mani, altro non può se non essere una chicca di giornalismo televisivo, in cui l’intervistato non è depauperato della sua dignità, non è vittima dello sciacallaggio mediatico cui siamo da altri programmi abituati, ma è preso come una persona, indagato e scrutato nel profondo; e si badi, con dovizia di particolari, prestando la Leosini fresca di verbali – come dice lei – un’attenzione dovutamente maniacale nello studio dei casi, i cui dettagli sono contenuti nelle dispense oramai ben note ai telespettatori. Così anche i crimini e i dettagli più efferati sono edulcorati dal sapiente artificio linguistico della conduttrice, e ogni protagonista, realmente colpevole o meno che sia, ottiene grazie a questo programma il riscatto sociale tanto agognato.